LOCANDA DE BARDI (PARTE I)

Un gruppo di giovani che si preoccupa di produrre identità, cultura e know how veneto attraverso le proprie – raffinate – scelte artistico-musicali, contraddistinte dal calore di un repertorio gipsy jazz, contaminato da sapori italiani (e non solo), ma, soprattutto, da un’energia vibrante!

È stato davvero un piacere incontrarli e conversare con loro...

1. Chi è la Locanda De Bardi? Com’è nata?

Matteo: La composizione del gruppo si ha un po’ per caso. Giulia ed io suonavamo insieme da anni in un gruppo che si chiamava “Tachipirinha”. Nel 2005 ho suonato occasionalmente con Marco e, sei anni dopo, dal momento che il suo gruppo aveva bisogno di un bassista, mi ha contattato. Ho cominciato così a suonare nel suo gruppo, mentre con Giulia continuavo a suonare nell’altro. Quando i due gruppi si sono sciolti, Marco, ci ha proposto di fondare una nuova band.

Michela: Sì, la proposta di Marco voleva dare concretezza a una certa idea di musicaimpegnata, non fine a se stessa. A Matteo, Giulia e Marco mancava ancora la voce; dato che Giulia ed io avevamo in mente, da tempo, di creare un progetto musicale, sono stata da loro coinvolta e ho completato il quartetto. Così, si è assemblato il gruppo. L’idea artistico-musicale, che poi si è evoluta nel tempo, è di Marco.

Marco: L’idea sottesa al nostro progetto viene dal nome che è, appunto, “Locanda De Bardi”. Il “De Bardi” è stato preso dalla “Camerata De Bardi”, che era un circolo culturale fiorentino della seconda metà del 1500. Se si gira per Firenze si trova ancora una targa che ricorda “Qui si riuniva la Camerata De Bardi”. Nei salotti del Conte De Bardi si raccoglieva la parte culturale della città, tra cui anche il padre di Galileo Galilei. Il loro intento era quello di portare alla luce il recitar cantando della civiltà greca (anche se, di fatto, nelle loro sedute conversavano un po’ di tutto, di arte in senso lato); e ci sono riusciti, perché da loro è partita la base del melodramma, quello che si evolve in opera lirica. Noi abbiamo voluto riportare ai giorni nostri quello spirito di condivisione, conferendo però una sfumatura un po’ diversa: da salotto a locanda vera e propria, che riflette bene la nostra impronta personale, evocando il connubio tra impegno culturale, musica e convivialità. Ecco, questa l’idea di base.

Giulia: Come luogo di condivisione abbiamo ovviamente scelto la locanda. Nei primi concerti eravamo accompagnati da artisti di vario genere: alcuni scrittori leggevano pezzi di libri e noi facevamo musica di sottofondo, oppure suonavamo mentre pittori e fotografi esponevano le loro opere. E poi una serie di incontri fortuiti e fortunati, come quello con Mauro Lampo, che ci ha invitato a suonare nella sua Bottega dei Giauli; con lui abbiamo instaurato una collaborazione che dura tutt’ora.

2. Come siete andati costituendo il vostro repertorio?

Matteo: Marco aveva già un’idea chiara dei testi che avremo suonato. Mi ricordo che è venuto da me con una chiavetta e mi ha fatto ascoltare una lunga lista di canzoni con un bel testo scritto di quella che avrebbe dovuto essere la Locanda e dentro c’erano già gli stili principali del nostro repertorio: jazz manouche, bossa nova, cantautorato italiano (Capossela, Iannacci, Buscaglione e Conte, in particolare) all’interno del quale siamo andati a cercare le canzoni che avevano dentro più espressione teatrale e alcune coincidevano con le canzoni più famose della musica italiana, come, ad esempio, “Vieni via con me”, “Vengo anch’io”… Tutte le canzoni sono state da noi ri-arrangiate, conferendo uno stile nostro.

Michela: A volte, come introduzione ai brani aggiungiamo pezzi di poesie o di monologhi: ad esempio, la canzone di “Titanic” introdotta da un pezzo di “Novecento” di Baricco, oppure “Con un bacio piccolissimo” introdotta da una poesia di Prévert sul bacio, o ancora “Il Cammello e il Dromedario” introdotta da una poesia di Rodari… per riprendere sempre l’idea di mescolare musica e altre forme artistiche.

3. Come e da dove nasce il vostro album “Storie di Bottega”?

Marco: L’album “Storie di Bottega”, in realtà, è una costola di un progetto più ampio. L’idea è nata un paio di anni fa, però, tra varie vicissitudini e vari impegni, abbiamo potuto svilupparla solo in questi primi sei mesi dell’anno. Essenzialmente si tratta di un “percorso” che si articola in quattro appuntamenti-cortometraggi (anche se poi, viste le esperienze e le persone straordinarie incontrate, è un percorso che, anche privatamente, continueremo sempre fino all’infinito). Noi lo intendiamo come un percorso educativo-riabilitativo, che parte da un preambolo: ormai è opinione comune l’idea che il nostro patrimonio culturale non abbia lo spazio che si merita, e questo, forse, è dovuto anche al fatto che non viene consumato nella maniera migliore da tutti noi (i primi destinatari di questo percorso siamo proprio noi quattro!). Non riusciamo a fruirne al meglio perché, quando pensiamo al patrimonio culturale, il più delle volte ce lo immaginiamo come Colosseo, come Pompei, come l’intera città di Venezia, come tutto ciò che è contenuto negli Uffizi… ma questa è solo una parte (49 %) del nostro patrimonio culturale; la parte più attraente (51%) dovrebbe essere rappresentata da quello che creiamo oggi, perché ha una relazione diversa con noi: consente di allargare i confini della conoscenza e l’indotto che ne deriva. Nel nostro percorso di cortometraggi abbiamo constatato che questo patrimonio culturale effettivamente c’è, solo che non lo conosciamo: senza andare tanto indietro nel tempo, guardando meglio intorno a noi, troviamo degli artisti-artigiani che fanno cose straordinarie. È stato un bel percorso, abbiamo imparato tanto e continueremo a farlo, perché se c’è così tanta bravura semplicemente nell’area che abbiamo girato noi - dalle Dolomiti al mare - chissà in tutto il resto!

Giulia: “Storie di Bottega” è un po’ un passaparola. I primi beneficiari siamo noi, nel senso che siamo noi i primi curiosi di scoprire queste realtà, però è anche un modo per farle scoprire ad altri. Ad esempio, siamo andati due volte a Venezia: la prima volta da Sofia, che fa maschere artigianali; la seconda da Piero, che fa le forcole. Piero e Sofia, pur essendo entrambi veneziani e avendo le botteghe non molto distanti, non si conoscevano. Averli fatti conoscere per noi è già una soddisfazione! Di artigiani veri a Venezia non ne sono rimasti tanti, e dall’incontro di questi due artigiani (entrambi giovanissimi, tra l’altro) - che fanno cose diverse ma praticano dei mestieri così antichi e storici per la città - può nascere magari una bella collaborazione.

Marco: È questo il punto cruciale: ci sono artisti così bravi, così in gamba, ma nessuno li conosce. E ci rifacciamo un po’ al concetto iniziale di “Storie di Bottega”. Al di là di come funziona il mercato, che dà più o meno importanza ad artisti diversi, quello che si dovrebbe riscoprire tutti assieme è una certa curiosità: lasciare un po’ la pigrizia e andare in cerca di ciò che non è immediatamente fruibile.

Michela: Oggi, con la tecnologia, le cose più artistiche, più artigianali, più autentiche sono le prime cose che perdi, perché non fanno parte di quel mondo dove tutto è a portata di un click: non le trovi e non le puoi conoscere se non vai personalmente lì dove sono. E, con esse, perdi una parte di conoscenze e competenze che possono essere solo tramandate ed esperite.

Matteo: Credo che l’aspetto più bello del saper fare una cosa, come dice il buon Mauro, sia poterlo trasmettere ad un’altra persona. Noi vogliamo contribuire, nel nostro piccolo, alla trasmissione della nostra cultura, del nostro saper fare qualcosa; in pezzettini certo, ma condividendo ciascuno il proprio accento sulle cose, il risultato sarà di una ricchezza, a mio avviso, molto profonda e interessante.

Continua...

Di seguito, il video di presentazione di "Storie di Bottega".








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