Cultura
11 Gen 2019
Vent’anni senza Faber
Storia di un impiegato
La prima volta che De André affronta in modo organico l’argomento, giocandolo in chiave anarchica, è con il disco Storia di un impiegato (uscito nel ’73). Già nel gennaio ’72, al settimanale Oggi, Fabrizio confidava la sua intenzione di fare «un disco sull’anarchismo», e di essere al lavoro da tempo «per incontrare quelle persone che l’anarchismo l’hanno vissuto da vicino», precisando che il suo sarà «un discorso essenzialmente poetico e umano: anche se è chiaro che nella dinamica degli avvenimenti ci sarà della politica e della violenza perché gli anarchici non è che gettassero caramelle, gettavano bombe». L’esito di tale percorso sarà, appunto, Storia di un impiegato (…). Con questo album – la critica è concorde al riguardo – si apre la seconda fase della produzione di De André (1973-1978), che segna una decisa svolta sul piano dell’elaborazione dei testi. Lasciata definitivamente alle spalle la stagione degli esordi artistici, fondata su due capisaldi spaziali e autoriali (la sua Genova e il suo Brassens), Faber, da un lato, mostra un’attenzione nuova al contesto sociopolitico dell’epoca, mentre dall’altro sembra acquisire una consapevolezza maggiore – e in certa misura definitiva – del valore della parola poetica in sé. Vengono abbandonati le immagini e i personaggi immediati dei primi dischi, sconfitti e/o turlupinati tout court dalla vita, per abbracciare una strada più complessa, venata da un certo gusto ermetico e visionario. In tal senso, l’impiegato protagonista dell’album, pur nelle sue contraddizioni del resto così umane, può essere visto come il primo spirito solitario, l’originaria anima salva, esempio di un’umanità finalmente risolta, guarita, liberata. In sintesi, se alla base dell’opera di De André si possono riconoscere due intenti opposti e complementari – un intento critico, decostruttivo e uno propositivo-costruttivo – a partire da Storia di un impiegato il secondo dei due elementi risulta acquisire un’importanza crescente: qui la critica sociale e la denuncia dell’insensatezza dei modi di vita borghesi lasciano gradualmente il posto alla proposta, peraltro sfumata e indiretta, di modelli altri di esistenza. Mentre la marginalità sociale, finora cantata con accenti poetici e persino nostalgici, assume ora un carattere più preciso in chiave economica e politica.
Anime salve
“Ricorda Signore questi servi disobbedienti/ alle leggi del branco/ non dimenticare il loro volto/ che dopo tanto sbandare/ è appena giusto che la fortuna li aiuti/ come una svista/ come un’anomalia/ come una distrazione/ come un dovere”: questi versi (da Smisurata preghiera) chiudono l’ultimo disco, da molti considerato il vertice della produzione del cantautore genovese, “Anime salve”. Difficile non pensare a una sorta di autoidentikit di un artista che, al di là delle sue stesse intenzioni, ha rivestito una diretta influenza teologica sulla cultura italiana dell’ultimo quarantennio. Il riferimento va oltre a quello, ovvio, di quell’autentico capolavoro che resta La buona novella, emblema di un’inquietudine generazionale alla ricerca delle ragioni di una ribellione interiore poetica e radicale, per allargarsi a tante canzoni disseminate di orme evangeliche, che ci consegnano una galleria inedita e memorabile di variopinti santi-peccatori. Prostitute e assassini, pescatori e musicisti, bevitori e bombaroli, nativi americani e zingari, tutte anime salve – appunto – in quanto perdute e rifiutate dal potere, esistenze riscattate dall’unica religione da lui coerentemente praticata, quella dell’umana compagnia e della solidarietà con gli esclusi. L’anima salva, per De André, è l’individuo capace di attraversare il disagio per provare a somigliare a se stesso, senza cedere al conformismo o ricorrere all’uso della forza; risultando così pericoloso per il potere, perché funge da esempio di un altro modo d’intendere il mondo e le relazioni sociali. Il potere, infatti, ha bisogno d’inquadrare gli uomini in un sistema di leggi, tenendoli nell’illusione di vivere nel migliore dei mondi possibili, come canta Faber in Un blasfemo (“È proprio qui sulla terra la mela proibita/ e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato/ ci costringe a sognare in un giardino incantato”). In tal modo gli esseri umani si omologano in una classe, quella piccola borghesia narrata in Canzone per l’estate (“Com’è che non riesci più a volare?”), indifferente al prossimo (“Lo sa che io ho perduto due figli?/ Signora, lei è una donna piuttosto distratta”, da Amico fragile), che vive perlopiù nella fobia degli altri e dei cambiamenti inferti al rassicurante trantran (“Senza la mia paura mi fido poco”, da La bomba in testa). È illuminante, a proposito, quel che dice De André del suo penultimo disco, datato 1990: “Le nuvole [sono un’]allegoria del potere, di quei potenti che ci tolgono, metaforicamente, la luce del sole e gettano nell’ombra la nostra libertà, le nostre utopie e la nostra dignità”. Come il potere incida sulle relazioni sociali e affettive, e quindi sulla sfera più intima e autentica dell’uomo, lo raccontano diversi episodi del canzoniere deandreiano, da Verranno a chiederti del nostro amore, a Se ti tagliassero a pezzetti, a Dolcenera…
Anarchia e cristianesimo
Per ribaltare il rapporto tra individui e società De André auspica il rifiuto delle ideologie assolutistiche come il socialismo, il capitalismo e lo Stato, e la nascita di «un’altra grande società di persone apparentemente emarginate che troveranno, attraverso il mutuo scambio gratuito, la maniera di sopravvivere dando luogo ad una maggiore crescita spirituale… L’uomo, spogliatosi delle pulsioni economiche, tornerà verso un mondo inevitabilmente più arcaico, ma andrà incontro a una sicura guarigione. Perché la vita non è poi così difficile da vivere, basterebbe non complicarla e riconnettersi con noi stessi. Non è fantasia, non è esoterismo: è saggezza». Per dirla con il brano Anime salve: “Ti saluto dai paesi di domani/ che sono visioni di anime contadine/ in volo per il mondo”. Il rifiuto dell’omologazione porta alla maturazione spirituale: non a caso per De André le radici di anarchia e cristianesimo sono comuni, tanto da trovare una connessione fra i due percorsi: «C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza… Il Dio in cui nutro speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti della calunnia, dell’odio, della vendetta… Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosiddetta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo». Rileggendo queste parole, mi tornano in mente quelle scritte da don Antonio Balletto, il prete concittadino che ne celebrò i funerali, per il quale «non dimenticare De André ci aiuta a tirare avanti, a credere ancora all’uomo e al suo futuro. E ci aiuta a conservare un po’ d’umanità, in tempi che non sarebbero piaciuti per nulla a lui e che non piacciono neppure a noi». Il che, a conti fatti, oggigiorno, vent’anni senza Faber, non appare davvero un esito dappoco.
Di Brunetto Salvarani (fonte: Alzo gli occhi verso il cielo)
Brunetto Salvarani teologo, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, è docente di Missiologia e Teologia del dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna di Bologna e presso gli Istituti di Scienze religiose di Modena, Forlì e Rimini. Dirige la rivista “QOL”, fa parte della redazione della trasmissione Protestantesimo di Rai 2, è tra i conduttori della trasmissione radiofonica Uomini e Profeti di Radio3 Rai e presidente dell’Associazione degli Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam. Tra le sue più recenti pubblicazioni, “La Bibbia di De André” (Claudiana Editrice).
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